Il linguaggio della vaghezza ha un suo perché? Bisogna essere sempre precisi e puntuali?
A queste domande ho provato a rispondere nel primo post, dove ho analizzato una dichiarazione rilasciata dalla ministra Elena Boschi.
Ciò che emerge è l’uso di un linguaggio votato all’indeterminatezza e all’effetto flou.
Il riassunto di ciò che dice è: qualcosa così importante come le riforme (genericamente intese) non può fermarsi perché alcuni (situati da qualche parte all’interno del partito) esprimono pareri contrari. Tutti (cittadini in generale e compagni di partito in particolare) possono capirlo. Restare uniti per il bene del Paese (genericamente inteso) è quello che ci hanno chiesto per anni (ognuno pensi a chi glielo ha detto e quante volte lo ha sentito) e adesso (indeterminato tempo presente) è arrivato il momento di mostrare che abbiamo capito (ognuno pensi che cosa). Il tema del lavoro (genericamente inteso) è al centro delle questioni e, se ci teniamo al bene dell’Italia, facciamo stare insieme (qualsiasi cosa significhi) imprenditori e lavoratori.
Sento qualcuno pensare: ah! Ecco! Il vuoto di idee! La mancanza di obiettivi! Il nulla cosmico nella testa della ministra e del governo tutto!
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Un passo indietro.
Il linguaggio, nelle sue infinite manifestazioni, possiamo riconoscerlo come preciso oppure volutamente indeterminato. Dico riconoscerlo perché a monte c’è sempre un progetto, un obiettivo portato avanti da chi parla o scrive e più siamo attenti nell’analizzare le parole più questo obiettivo ci diventa chiaro.
Se chi parla o scrive ha come obiettivo primario quello di farsi capire al primo colpo, è chiaro che userà un linguaggio quanto più preciso, chiaro e univoco possibile: un medico che parla di una terapia, un’astronauta (al femminile in onore di Samantha) che deve capire come si spegne il fuoco a bordo, un cittadino che voglia capire come pagare le tasse. Razionalità e poco altro.
Se però l’obiettivo è quello di persuadere qualcuno (pochi o tanti), ecco che chi parla o scrive cercherà di mettersi in contatto con la parte emotiva del suo destinatario e quindi non userà comunicazioni unidirezionali o proclami, ma “movimenti” verso. Movimenti di avvicinamento verso i pensieri e i desideri del destinatario che non si possono conoscere in maniera precisa, ma si possono evocare, suscitare, far emergere usando un linguaggio volutamente vago.
La vaghezza non è quindi da archiviare subito sotto la categoria “vuotaggine”. La vaghezza è una calamita fortissima perché fa in modo che chi ascolta o legge se la cucia addosso e la trasformi in ciò che preferisce.
La pubblicità insegna: il “benessere del mattino” che cosa vuol dire in sé? Abbastanza niente (lo so che non si dice, è per capirci). Ma è ciò che significa per ognuno di noi che conta e che ci muove all’acquisto.
E nella vita di tutti i giorni pensiamo all’effetto che sortisce su di noi una frase come: “ah, ti devo parlare”. Apriamo mondi, sprechiamo ipotesi, ci asciughiamo perline di sudore, ci lecchiamo i baffi… tutto facendoci il nostro personale film.
Il linguaggio dell’indeterminatezza agisce nella testa di chi ascolta chiedendogli cooperazione, chiedendogli di partecipare a un lavoro bellissimo di co-creazione del significato.
Nel suo discorso, Elena Boschi chiede a chi ascolta: pensa alle riforme che ritieni più importanti per te (scuola, lavoro, costituzione…); a quello che per te è il bene del Paese (avere una PA più snella, vedere il PD governare a lungo, riportare credibilità all’Italia… ); a ciò che per te vale di più difendere quando parliamo di lavoro. Ecco, anche per me e per noi sono temi importanti: se restiamo uniti, lavoriamo tutti alla realizzazione del medesimo obiettivo.
Il meccanismo è questo: che sia efficace o no, o quanto sia efficace, bisognerebbe verificarlo caso per caso (e qui non me ne occupo).
Certo è che se la ministra avesse preferito togliersi i sassolini dalle scarpe e andare diritta sul bersaglio, avrebbe potuto spogliarsi del sorriso e della pazienza e usare la versione alternativa (l’ho inserita anche sotto le mie tavole nella prima parte del post):
1) cari compagni di partito, la riforma del mercato del lavoro non la molliamo nemmeno morti
2) tutti a dire no! Non se ne può più, davvero.
3) rimanere uniti è quello che ci riesce peggio perché proprio non siamo abituati, preferiamo farci la guerra e affondarci a vicenda, come l’esperienza dimostra. #ecchecavolo.
4) noi cerchiamo di fare quello che possiamo, c***o, ma se continuate a metterci il bastone fra le ruote tutto è lungo, dilaniante, combattuto.
5) siamo stufi di continuare ad attorcigliarci attorno alle vecchie questioni di lotta, classi sociali e capitale; vorremmo metterla su un piano diverso, tanto per cambiare. E andare avanti. #ecchecavolo
A qualcuno piacerà di sicuro questa seconda modalità: diretta, spigolosa, ma chiara. Io dico che dipende dall’obiettivo: se vuoi alimentare un incendio e dare importanza a chi ha buttato il cerino (target primario, compagni di partito), sì. Se vuoi spegnere le fiamme e fare in modo di portarti a casa anche solo il beneficio del dubbio di chi ti ascolta (ricordarsi anche del target secondario, cioè i cittadini), allora va bene il linguaggio dell’indeterminatezza.
Quello che è interessante sottolineare è che la neurolinguistica fornisce chiavi di lettura molto interessanti e permette di andare a fondo nell’analisi delle parole che usiamo. E le parole non sono mai casuali. Le parole che usiamo parlano di noi, di come vediamo la realtà e di come, nella nostra testa, facciamo aderire la realtà a ciò che pensiamo di essa.
Le parole, che creano storie, le scegliamo noi.
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Foto di Marco Borgna